giovedì 27 giugno 2013

Uccidete Tony Pisapia!

C'era una volta un bravo regista italiano, anzi, il miglior regista italiano: era fantasioso, brillante, rigoroso. Sapeva girare e sceneggiare. Creava film che andavano forte anche all'estero ed era responsabile della scoperta cinematografica dell'attore più fico della galassia. Un giorno però, arrivarono dallo spazio gli ultracorpi, e nel giro di una notte sostituirono il miglior regista italiano con un regista di videoclip dalle idee confuse. Nessuno se ne accorse e l'ultracorpo continuò a girare film come aveva fatto prima il suo ospite, producendo però delle pompose scemenze. Ecco, se le cose stessero così potremmo almeno in parte scusare Paolo Sorrentino per "La grande bellezza". Purtroppo non ci sono baccelloni nel suo giardino, quindi dobbiamo credere che fosse nel pieno delle sue facoltà mentali quando ha scritto, sceneggiato e diretto questo film.

Jep Gambardella è uno scrittore che ha pubblicato un solo libro di grande successo. E' una sorta di Oscar Wilde napoletano in trasferta permanente a Roma. Elegantissimo, mondanissimo, il suo compito è guidarci alla scoperta della decadente capitale d'Italia tra (tante)feste in discoteca, serate in terrazza a scambiarsi cattiverie con gli “amici”, scopate volanti con questa e quella, sedute da un dottore che spiana le rughe con una miracolosa siringa. Jep è figo, a tratti cafone, si aggira nei salotti romani con l'aria di chi tutto ha visto e di nulla si sorprende più. Si confida solo con la sua redattrice Dadina, anche se a nessuno parla delle sue sofferenze, della solitudine, della sua ricerca della grande bellezza persa di vista tra drinks e discoteche. E' un cinico che si lascia vivere, pur tra gli agi; è stato deluso da tutto e dall'amore prima di ogni cosa: ha amato una sola donna la quale lo ha lasciato e -pur continuando ad amarlo- ha sposato un altro uomo. Egli vede la disperazione attraverso la patina di allegria e lusso delle feste in terrazza, prova simpatia e sincera commozione per il prossimo, ma non interviene mai, rimane un osservatore. Aggiungiamo che Jep Gambardella è Toni Servillo e la domanda verrà spontanea: perchè questo film non m'è piaciuto e anzi, mi ha fatta imbestialire? Vediamo...
Toni Servillo, lui sì che è una bellezza...

Prima di tutto, “La dolce vita”: io il film di Fellini non l'ho mai visto (beh, non tutto intero) e certamente non posso giudicare la più volte citata somiglianza con l'opera di Sorrentino, ma trovo che tutta l'ambientazione, i personaggi e la storia siano mostruosamente scollati dalla realtà attuale. Mi faccio casalinga di Voghera e chiedo: ma in questo momento storico, con tutti i problemi che ha il nostro paese, a noi cosa ce ne importa dei salotti romani e della loro falsità, di un'artista concettuale che sbatte la testa contro i piloni di un acquedotto romano e -scusate tanto- della malinconia di uno che passa la giornata a dormire, bere e scegliersi i calzini e le cravatte? E' di questo che abbiamo bisogno? Il regista dice che Jep simboleggia l'Italia e il suo spreco di talento, ma non mi convince: il massimo della discesa infernale di Gambardella è avere in casa gente che pippa cocaina (purtroppo, non c'è proprio niente di sorprendente in questo) e pagare una coppia per guardarli mentre fanno sesso. Un po' pochino, considerato com'è diventata Roma negli ultimi anni e le cose a cui ci hanno abituato i telegiornali nazionali.
I personaggi sono spesso scontati: Stefania, la giornalista di sinistra che ha fatto carriera grazie al partito (si mormora che sia una metaforica Palombelli), quasi una radical chic, Viola, l'amica ricca senza arte né parte afflitta per la malattia mentale del figlio (un simbolo della gioventù italiana schiacciata dal proprio paese), Ramona, la spogliarellista quarantenne dall'animo sensibile con cui il nostro eroe intesse una specie di relazione che (letteralmente) naufraga sull'Isola del Giglio insieme alla Costa Concordia (Alan Alda in “Delitti e Misfatti” definiva l'umorismo tragedia più tempo, qui con innegabile cattivo gusto c'è solo la prima) sono prevedibili, i loro comportamenti scontati. Carlo Verdone è bravo nella parte dello scrittore in crisi che corre dietro a una bruttona piena di sé, ma fa pur sempre un personaggio di Verdone, ci mancherebbe pure che non fosse bravo.
Il linguaggio è irritante: tutti, ma soprattuto Jep, parlano per aforismi, distribuendo perle di saggezza dimenticabili, banalità che chiunque, osservando i protagonisti, potrebbe coniare. L'intervista di Jep con l'artista concettuale vorrebbe essere uno scontro tra concretezza e inutile astrazione, ma diventa un crudele e neanche troppo raffinato esercizio di dialettica da parte di Gambardella. E poi troppe “telefonate” e troppe spiegazioni (tra le più atroci la “bacchettata” di Jep a Stefania che si vanta di essere una che si fa un mazzo tanto per essere madre e donna di successo e il dialogo finale con la “Santa”) di cui lo spettatore non ha bisogno, perchè le immagini e la storia dovrebbero già essere in grado di trasmetterle. Penso ai “Mostri” di Dino Risi e a “Il dottor Guido Tersilli” e “Finchè c'è guerra c'è speranza” del tanto vituperato Alberto Sordi, lì nessuno faceva proclami eppure si capivano benissimo le intenzioni degli autori. La verbosità che già aveva contraddistinto “This Must Be The Place” tocca qui uno zenith.

Una cosa fa piacere, vedere tante facce “vecchie”: la Ferilli appesantita, Serena Grandi sfatta, la sempre grande Iaia Forte scoppiata, caratteristi divenuti famosi nelle commedie anni 80 con un bel po' di rughe in più; sono volti più veri e questa è forse la sola novità del film, protagonisti over 45 che per una volta non devono sembrare più giovani ma limitarsi ad avere la propria età. Stona allora la scelta di un giovane Jep e della sua prima e unica fiamma dai faccini che sembrano usciti da un video dei One Direction, e atterrisce la scena in cui lei, donna amata per tutta la vita, donna angelicata e perfetta apre bocca (per dire qualcosa che Gambardella ricorderà con lo sguardo perso e gli occhi a forma di cuore) e parla come una bimbaminchia.

Eppure gli elementi del cinema di Sorrentino ci sono, surrealtà, la sospensione di certi istanti, in un paio di scene pare rivedere il regista de “Il Divo” e di “Le conseguenze dell'amore”, ma sono momenti. Sorrentino ripete sé stesso con un manierismo senza senso, cerca di clonarsi anche se probabilmente è venuto il momento di cambiare. Jep Gambardella altri non è se non il Toni Pagoda dei due libri pubblicati dal regista, che a sua volta è Tony Pisapia de “L'uomo in più” (ricordate il monologo finale?): interessante e affascinante visto che lo interpreta Toni Servillo, ma forse ormai incapace di dire cose nuove. Uccidilo, Paolo, lascia libero Servillo di interpretare per te nuovi personaggi, lascia perdere le mega produzioni con invadenti sponsor e fai un film con quattro soldi, una buona, semplice, onesta sceneggiatura e pochi attori. Ritrova te stesso, perchè così non ti riconosco più.