domenica 30 marzo 2014

Double bill con Gemella Frittella, "A prososito di Davis" e "Lei"

La vostra Frittella non frequenta il cinema quanto vorrebbe, ma ogni tanto capita di andarci e per film notevoli come quelli che seguono...

Hang me, oh Hang me! A proposito di Davis di Joel e Ethan Coen

Uscendo dal cinema dopo aver visto “A proposito di Davis” per la prima volta, la mia amica Tiziana è perplessa. Bel film, certo, fatto bene...ma...? A dire, ne avevamo proprio bisogno? A cosa volevano arrivare i Coen Bros raccontando la storia surreale e sfortunata di Llewin Davis, musicista folk nella New York degli anni 60?
Io che il film lo vedevo per la seconda volta (e se continuasse ad essere in cartellone probabilmente tornerei a vederlo) so come si può sentire: lo svolgersi degli avvenimenti sembra non avere picchi, e come in “A serious man” o “Fratello dove sei?” ci sentiamo un po' defraudati della normale struttura narrativa di un film (specialmente se americano). I fratelli Coen vengono citati soprattutto per pellicole scoppiettanti, violente e surreali come “Fargo”, “Il grande Lebowsky”, “Non è un paese per vecchi”, ma hanno anche un lato estremamente filosofico: così, “A serious man” era un'evidente citazione delle peripezie di Giobbe, “Fratello dove sei?” dell'Odissea di Omero, e “A proposito di Davis” sta a metà tra queste due ispirazioni.
Siamo nel 1961, la musica folk sta vivendo una nuova stagione in contemporanea con la rinascita della consapevolezza civile nei giovani. Manca poco al debutto di Bob Dylan, che già si aggira per il Village (il suo primo album omonimo è proprio del 1961), e Llewin Davis è uno dei tanti folk singers che suonano al Gaslight Cafè, nuovo tempio del genere. L'attacco nella prima inquadratura di “Hang me, oh Hang me” ci presenta un personaggio che si sente fuori posto dovunque: dalle navi cargo dove lavorava, al Village dove sogna di sfondare (forse), è ipercritico e perennemente insoddisfatto da ciò che gli tocca ascoltare. Le canzoni dei suoi colleghi sono malinconiche ballate che vagheggiano una povertà e una solitudine mai vissute, gli sguardi degli spettatori, giovani intellettuali impegnati a sembrare più che ad ascoltare, sono rapiti da qualunque cosa possa essere hip, ma Llewin, che povertà e solitudine invece le conosce bene, non riesce a farsi incantare dall'atmosfera, e all'entusiasmo degli amici per le esibizioni risponde assentendo con una mancanza di convinzione che nasconde a malapena il suo disappunto: “Aha”.
In effetti, a parte il gestore del locale (lui sì, veramente cinico) che qui assume il nome di Pappi Corsicato (?) è l'unico a non vivere su una nuvoletta rosa. Sotto la patina dorata della leggenda tramandata e dell'entusiasmo che doveva esserci allora nell'aria, trapela la sensazione di una posa, di una finzione che bene o male tutti gli altri personaggi hanno accettato di farne parte. L'amico Jim si finge musicista impegnato ma è un giovanotto di buona famiglia che sa bene che per sfondare bisogna scrivere canzonette, e non ha vergogna di farlo (e di inciderle!); l'agente Mel offre il proprio cappotto allo squattrinato Llewin per poi ritirare l'offerta appena questo accetta; Jean (compagna di Jim) si fa mettere incinta sempre da Llewin (forse) per poi trattarlo malissimo, come se lei non fosse stata nemmeno presente quando è successo il fattaccio. La sorella finge che nella loro famiglia sia andato sempre tutto bene, ma è evidente che le cose non stanno così. Tutti in qualche modo recitano una parte, cercando di mostrare qualcosa e di nascondere qualcos'altro. Solo Llewin e il gatto dei Gorfein -sua coscienza, una sorta di Grillo Parlante molto più simpatico- sono sempre sinceri, con tutti. E per questo motivo il protagonista diventa a sua volta coscienza e spalla di una giostra di caratteri che gli vengono incontro come massi su una strada in discesa e che presi tutti insieme (come purtroppo capita al nostro eroe) sono veramente allucinanti. Il culmine però è l'incontro con Johnny Five -poeta beat- e Roland Turner, musicista jazz con la spocchia dei musicisti Jazz. Il viaggio che insieme a loro Llewin compie verso Chicago è una vera sofferenza, percepita quasi fisicamente anche dallo spettatore che assiste incredulo a quanto il protagonista deve subire, e quando chiede alla cameriera di un autogrill quanto manca a Chicago e lei risponde “Tre ore” ci sentiamo veramente gelare il sangue.
Nonostante il freddo, la fame, e gli sfiancanti compagni di abitacolo va avanti, aggrappato alla sua musica, che forse è l'unica cosa di cui sia sicuro, anche quando il famoso produttore Bud Grossman gela le sue speranze.
Se di solito i film dei fratelli Coen traboccano di cinico humour nero, qui possiamo permetterci solo una risata amara e incredula. Llewin, così casinista, testardo, forse presuntuoso ma puro, resta nel cuore, persegue la sua strada anche se sa che ci sarebbero scappatoie, che la vita non premia i coraggiosi e che di questo passo non arriverà da nessuna parte. Lo sa, e nessuno si esime dal ricordarglielo, dall'acida Jean a Grossman (“Non hai la stoffa del leader”), ma non riesce a fare a meno di seguire la propria strada, per quanto rovinosa e deludente. E anche quando cerca di ritornare ad una vita “regolare”, al lavoro “serio” del marinaio per poter almeno mangiare, non può tornare indietro, ma solo proseguire verso il suo destino.
Per chi conosce la musica di Bob Dylan e il cinema di quel periodo il film è anche un delizioso catalogo di ammiccamenti e citazioni che permettono di leggere la storia su diversi piani, uno strettamente legato alle vicende di Llewin e l'altro alla storia dell'impegno civile e del movimento sia musicale che politico degli anni 60.

Dietro l'apparente semplicità e linearità “A proposito di Davis” cela una ricchezza di caratteri, di considerazioni sul destino e di paradossi, anche temporali, invidiabile. Costruito su quanto non si dice piuttosto che su quanto viene detto e mostrato, ha una sceneggiatura mirabile, una musica meravigliosa, e due straordinari personaggi, Llewin Davis (Oscar Isaac, bravo anche come cantante), e il gatto. E ti resta dentro per tantissimo tempo, come una canzone che non riesci a smettere di cantare alla quale scopri di esserti terribilmente affezionato.

Llewin Davis

e...Gatto...?


L'amore ai tempi dell'Ipad: Lei di Spike Jonze

“Essere John Malkovich” era un film bizzarro, divertente e a tratti disturbante, che ci fece conoscere il genio (oserei chiamarlo così) di Spike Jonze e la sua concezione dell'identità individuale (?) e dei rapporti amorosi. Ritroviamo questi stessi temi alla base di “LEI”, una storia d'amore (come gridato dai poster) ma non solo, interpretata da un Joaquin Phoenix carino carino e (nella versione originale) da un'incorporea (per la tristezza dei suoi fan) Scarlett Johansson.
Theodor Twombly fa lo scrittore di lettere, tiene la corrispondenza personale di chi per tempo o per scelta non riesce a scrivere ai propri cari. Passa la sua giornata a dettare a un computer frasi piene d'amore e nutrire gli affetti altrui mentre la sua vita, da quando la moglie lo ha lasciato, è praticamente priva di contatti umani, serrata tra il lavoro e la casa, un gigantesco appartamento quasi vuoto immerso in una città dove sembra non crescere un filo d'erba e tutto lo spazio è occupato da giganteschi grattacieli. Theodor passa le ore libere giocando con videogiochi olografici con i quali può addirittura dialogare e il suo vero unico compagno di vita è un aggeggio simile ad un telefono cellulare col quale comunica grazie a un auricolare: una voce elettronica lo guida, gli legge le sue mail, lo introduce in (disastrose) chat sexy, eccetera. In pratica parla da solo. La sua solitudine termina il giorno in cui decide di installare nel suo computer OS, un sistema operativo a intelligenza artificiale che -differentemente da Windows, Linux e Apple- è in grado di imparare ed evolversi. L'effetto è immediato, Theodor inizia subito a dialogare con la voce che viene dal computer (che si sceglie il nome di Samantha) e grazie all'auricolare (e ad un fantastico sistema W-Lan, Wi-Fi e tutto il W che potete immaginare) se la porta sempre appresso. Dapprima parlano del più e del meno, lei gli riordina le mails e lui le chiede aiuto per correggere alcune lettere. In pochissimo tempo però diventano amici inseparabili e da lì iniziano una verae propria relazione sentimentale.
Un rapporto tra materiale e immateriale, tra un uomo e un'entità elettronica, non fisica è un'idea vertiginosa e di per sé molto poco cinematografica che Spike Jonze affronta in ogni sua sfumatura, anche la più difficile e paradossale. Non si tira indietro neanche di fronte alla resa di una scena d'amore tra un uomo in carne ed ossa e una voce, pur per la sottoscritta poco convincente, ma certamente coraggiosa. Tutti i dubbi, le incertezze, le felicità di questa storia d'amore vengono raccontati e -come nella vita di tutti noi- i rapporti di forza cambiano continuamente e la fine è sempre qualcosa di ignoto e sorprendente.
L'idea è intrigante, di quelle che covano nell'inconscio di tutti e che aspettano solo che una sensibilità superiore e coraggiosa le peschi per noi dal profondo. Il mondo in cui si muove Theodor, pulito, caldo, morbido, in cui non esistono guerre né povertà ma solo solitudine è lo specchio inquietante del presente tecnologico, in cui le persone sono immerse in un perenne soliloquio con telefoni e computer e i gradi di separazione tra esseri umani si moltiplicano esponenzialmente; la scelta dell'ambiente, una città di edifici altissimi lucidi e immobili, sempre più opprimente e insopportabile man mano che la storia procede è illuminata dalla luce di un sole amico e dai colori delle camicie di Theodor; la splendida, veramente splendida fotografia riesce a creare un'atmosfera sospesa, un mondo come uno spot della Apple ma più sognante. Sotto certi punti di vista “Lei” è un capolavoro.
Joaquin Phoenix sogna...e noi sogniamo lui!

Purtroppo però questo film colleziona una serie di difetti quasi imperdonabili. Il più grave, soprattutto se consideriamo che ha vinto alcuni premi come miglior sceneggiatura originale, è proprio nella scrittura: troppa, ridondante, stucchevole. I personaggi parlano continuamente, in pratica non esistono spazi di silenzio. I dialoghi tra Samantha e Theodor sono dolciastri, complimentosi e affettati, ricordano quelli di certi spot di biscotti e merendine, e la mancanza di sostanza fisica di Samantha è sostituita da una valanga di inutili spiegazioni e parole. Credo che il termine “Dolce” sia il più ricorrente, come sei dolceche dolce, roba da diabete fulminante. Per non parlare delle lettere che scrive Theodor, altra botta glicemica che rischia di stendere. Le emozioni sono telefonate, l'ellissi e il non detto defungono, c'è una sovrabbondanza di descrizioni di sentimenti che li rende didascalici e artificiosi, a cui corrisponde anche un'esagerazione di sequenze che mostrano “ioeilmioamorequantocidivertiamoinsieme” (del tipo musica di sottofondo e vari spezzoni su come Theo e Sam passano il tempo) che hanno il sapore delle bibite gasate che promettono un mondo migliore. Volendo difendere a tutti i costi Jonze si potrebbe dire che in linea con l'ambientazione sceglie, oltre ad un'immagine da spot anche un linguaggio da spot. E' innegabile però che questo stile appesantisca mostruosamente la narrazione. Sembra che il regista abbia abbandonato il suo bizzarro umorismo o gli abbia dato una forma troppo complessa per essere riconosciuta con relativa facilità.
Joaquin Phoenix oltre che carino carino è anche bravo bravo, ma non abbastanza per reggere il peso attoriale di un copione del genere, in cui per il 90% del tempo parla con una fidanzata invisibile. E' sicuramente anche colpa dei dialoghi, ma -anche se non è carino carino- al suo posto io ci avrei visto meglio Bill Murray, che s'era già caricato sulle spalle “Lost in Translation” portandolo ad un ottimo livello. Chissà, con un regista come Jonze, cosa sarebbe riuscito a fare.
Lei, proprio LEI, Samantha, nella versione italiana è insopportabile. Micaela Ramazzotti ha uno spiccato accento romano, ma se fosse solo quello la potremmo pure perdonare. Il problema è che non convince per niente. Non trasmette nessuna emozione sincera (che sarebbe di regola il compito di un attore) impegnata com'è a cercare di imitare la voce leggermente roca di Scarlett Johansson, quella che conosciamo dagli spot di “Dolcie e Gabana” (e che di per sé non mi ha mai particolarmente emozionata) e a pronunciare “Theodor” all'americana. Tutto quello che vorremmo è lasciarci trascinare e sommergere dalla bellezza delle immagini, ma siamo continuamente infastiditi dal cicaleccio della Ramazzotti, al punto che in certi momenti vorremmo scappare dalla sala. Qui non sarei in grado di fare un nome per una sostituta, ma sono certa che con la voce giusta il film avrebbe funzionato meglio.

Molto bene e molto male insomma. Non so dirvi quanto mi dispiace, perchè -ripeto- questo film poteva davvero essere un capolavoro. Vale comunque la pena di andarlo a vedere.
“Lei” è adesso e sempre, è la solitudine universale e profonda dell'uomo, un essere molto più limitato di quello che crede, che non dipende dalle nostre differenze “di costruzione”, bensì dalla creazione stessa che ci ha condannati.  

sabato 22 marzo 2014

Gemella Ciambella fa un viaggio nel passato: "Amateur" di Hal Hartley

"Amateur" di Hal Hartley fu uno dei piu' grandi successi del cinema indipendente dei nebulosi anni 90' e nonostante io abbia sempre voluto vederlo non ci sono mai riuscita (bo', forse ho speso tutti i miei soldi in film come Seven e Fight Club).
La settimana scorsa la TV tedesca mi ha finalmente dato la possibilita' di guardare questo film, una volta per tutte, o quasi.

La storia: un uomo, Thomas, si sveglia in una strada, dopo un volo fuori da una finestra e dopo essere stato abbandonato sul selciato da una misteriosa donna.
Egli non ricorda piu' chi sia, entra in un cafe', dove cerca di ordinare da mangiare ma ritrovandosi nelle tasche solo soldi olandesi, non viene servito. In suo aiuto appare una cliente, Isabelle, che gli offre un pranzo e lo invita a casa sua per medicargli le ferite. Thomas accetta.
Entrati in confidenza, Isabelle racconta a Thomas di essere una ex suora, ninfomane ma ancora vergine, che si guadagna da vivere scrivendo romanzetti pornografici. Intanto Sofia, la donna che ha lasciato Thomas a terra, e' in fuga da dei loschi tipi ma il suo destino incrociera' presto quello di Isabelle e Thomas.

Ho trovato la storia interessante e sufficientemente appassionante, anche se dalle prime scene avevo gia' capito come sarebbe finita (tuttavia ho sperato fino alla fine in un colpo di scena). Il punto centrale del film non sembra essere nemmeno la storia ma i personaggi: ognuno di loro ha una biografia abbastanza incredibile e si muovono in uno scenario di fatti ancora meno plausibili con una notevole sicurezza. Nessuno di loro si fa troppe domande, vivono come in una realta' alternativa.
La storia e' raccontata con humor flemmatico e un po' di surrealismo, tipico forse degli anni 90' (Clerks, Leningrad Cowboys), dove i lunghi silenzi valgono come battute e sottolineano lo stupore di fronte a certe situazioni.

"Amateur" mi e' piaciuto ma probabilmente mi sarebbe piaciuto di piu' anni fa.
Non si puo' non sorridere di fronte ai cellulari grandi come cabine telefoniche e a certi vestiti. Il tipo di narrazione, l'incredibilita' di certe scene ha funzionato sicuramente prima ma in qualche modo non mi ha convinto oggi...forse e' il montaggio, oppure semplicemente era un film "giovane" e non tutti hanno il talento per la leggerezza di Aki Kaurismaki. Il film vive della performance dei suoi attori: Isabelle Huppert e Martin Donovan sono a loro agio nei panni di Isabelle e Thomas, mentre Elina Löwensohn e Damian Young si muovono sopra le righe e portano avanti la narrazione, prendendo decisioni sbagliate una dietro l'altra.
Isabelle Huppert brilla e si distingue per la sua "europeicita' ", impossibile da nascondere in un ambiente cosi "americano".




Mi piacerebbe vedere altri film di Hal Hartley, anche perche' si e' sicuramente evoluto da allora. E' autore anche della trilogia di "Henry Fool" e facendo una ricerchina ho scoperto che e' ancora molto attivo ed e' forse l'ultimo vero indipendente del cinema americano: attraverso la sua compagnia Possible Films, scrive produce e distribuisce le sue pellicole.
Il suo nuovo film dovrebbe uscire quest'anno ed e' stato finanziato attraverso Kickstarter.

Per saperne di piu', ecco il sito di Possible Films: http://www.possiblefilms.com/