Sono colpita da come si sia evoluto il
concetto di genitorialità, soprattutto a partire dalla mia
generazione, forse la prima di figli a cui è stato concesso tutto in
termini materiali. Fino ad allora la prole era quasi l'obbligato
coronamento di un matrimonio, e chi non ne aveva era guardato con
compassione, come qualcuno cui la Natura, non la volontà personale
che si dava per scontata, avesse negato l'occasione di una vita
piena e completa. Oggi i bambini sono pianificati, previsti, cercati;
arrivano talvolta per caso, ma sempre meno. Così, è cambiato anche
il loro ruolo e la loro funzione interna alla famiglia e l'attenzione
di cui sono oggetto da parte dei genitori, generando conseguenze
spesso negative nel momento in cui devono entrare nel mondo, seguire
regole comuni e rispettare l'altro. Mettere in dubbio la santità
della genitorialità è quasi una bestemmia in Italia, ma qualche
sera fa “Hungr y Hearts” mi ha dato la certezza che non sono
l’unica ad avere di questi pensieri.
La famiglia è cambiata, da elemento di
un tessuto sociale si è progressivamente trasformata in un organismo
mono cellulare unico e irripetibile, ogni nucleo a sé, separato
dagli altri, simili solo per costituzione (esseri di diversa
provenienza che convivono e -non sempre, ma accade- si riproducono).
Questo isolamento ha trasformato anche i figli in esseri unici,
diversi da ogni altro e tanto più preziosi in quanto estensione e
riflesso diretto dei genitori, in grado di somigliargli appagando il
loro narcisismo, di amarli e di essere amati soddisfacendo un bisogno
emotivo. Il sentimento di separazione dal resto del mondo può
generare come conseguenza la convinzione che il nostro modo di vivere
sia migliore e più puro degli altri e che per preservare i figli sia
necessario agire e crescerli diversamente dagli altri.
“Hungry Hearts” è anche, ma non
solo, la rappresentazione di questo tentativo di mantenersi al di
fuori del gruppo, della massa, che può contaminare la prole e di
conseguenza la famiglia. La madre ossessionata dalla purezza, che
rifiuta per il suo piccolo il cibo che tutti gli altri bambini
mangiano causandone un rallentamento nella crescita, che non lo
espone al sole e nemmeno lo porta fuori casa per sette mesi è tanto
più agghiacciante quanto sincera e ostinata nella sua convinzione
-secondo un altro cliché della maternità italiana- di conoscere il
proprio figlio meglio di chiunque altro e di sapere, in virtù di
questo, cosa sia meglio per lui, di poterne disporre come di un bene
che è suo, solo suo. Non è casuale credo, se non ho sentito
chiamare il bambino per nome durante tutto il film: conteso tra il
padre e la madre e strappato dalle braccia dell'una e dell'altro in
continuazione, egli perde la sua identità e diventa un oggetto, è
una proprietà al cui possesso nessuno vuole rinunciare, calpestando
il partner e il rapporto da cui quel figlio è nato. In una reazione
imprevista, ciè che doveva unire distrugge. Serrati nel conflitto, i
protagonisti vivono un incubo claustrofobico (la sequenza nel loro
appartamento ripresa dall'alto con lenti deformanti è angosciante, le voci che arrivano lontane, ovattate e sembrano provenire dal
nulla) da cui non sembra esserci via d'uscita e la cui posta (non
possiamo dimenticarlo per un solo istante) non è solo la vita del
bambino, ma tutto il suo essere: ciò che potrà essere e diventare e
desiderare sarà inevitabilmente fagocitato da questa guerra interna
alla famiglia.
Saverio Costanzo, che già mi aveva
sorpreso con “La solitudine dei numeri primi” mi convince
definitivamente che si può uscire dagli stucchevoli e triti schemi
del cinema italiano scoprendo i conflitti, i sentimenti e le angosce
di cui si fa fatica ad ammettere l'esistenza, almeno da noi. Alba
Rorhwacher è bravissima, riesce ad attirare l'antipatia dello
spettatore come una calamita, nonostante la sua convinzione alimenti
il dubbio che potrebbe pure avere ragione, la sceneggiatura è
quella di un thriller in cui la tensione viene alimentata in maniera
lenta e costante, mentre la scelta di limitare i personaggi e usare
ambientazioni d'interni e inquadrature strette per la maggior parte
del tempo dà perfettamente il senso di essere in trappola, isolati e
soli dei due giovani. Speriamo solo che Saverio Costanzo non faccia
la fine di Paolo Sorrentino.