Qualche sera fa ero a cena con delle
colleghe che come me lavorano nel campo della sordità. Una di loro
si trova a far fronte ad un caso di abbandono scolastico da parte di
uno studente adolescente che segue da tre anni. Come capita a molti
di loro, vezzeggiati e di fatto emarginati dall'assistenzialismo
statale, è stato inglobato da un gruppo religioso che grazie a
evolutissimi sistemi di marketing e ulteriore assistenzialismo offre
ai sordi un porto sicuro e -apparentemente- senza responsabilità;
quindi non c'è motivo per faticare ulteriormente, raggiungere una
qualifica professionale e magari un giorno lavorare, con tutto ciò
che ne consegue. La collega era abbastanza depressa, si sentiva di
aver fallito il suo compito.
Se si lavora con la disabilità, prima
o poi ci si trova ad affrontare queste situazioni, specialmente se si
ha a che fare con adolescenti, che per natura si rivoltano contro i
buoni consigli, o famiglie problematiche che non sono in grado di fare il bene del proprio figlio o neppure riescono a immaginare quale
possa essere, a me è capitato e ci sono rimasta molto male: quando
t'impegni in un lavoro sociale non puoi fare a meno di vedervi uno
spunto di miglioramento, tuo e degli altri. Non perché si voglia
cambiare il mondo, ma perché lo si vorrebbe far funzionare meglio,
rendere più armonico, ed essere coinvolti in quest'armonia
(d'altronde il precariato e le paghe da fame previsti in questo campo
testimoniano che è la passione a spingere educatori, assistenti alla
comunicazione etc.). Vedere il risultato del proprio lavoro è
bellissimo, ci si sente di aver avuto le giuste intuizioni e di aver
lavorato bene, di avercela fatta nonostante condizioni difficilmente
a nostro favore.
Quando invece le cose non vanno come ci
saremmo aspettati siamo portati a prendercela con noi stessi o con
chi ci ha ostacolati o con entrambi. Peggio ancora se chi ci delude è
proprio colui/colei verso cui gli sforzi erano diretti, che avremmo
dovuto facilitare e condurre verso una strada di successo e
felicità, in quei casi è quasi automatico ritenersi gli unici
responsabili.
Inutile dire che le vittorie o le
sconfitte non sono in questo campo ascrivibili all'operato di una
sola persona o entità. Ci sarà sicuramente una figura di
riferimento, chi costruisce e chi distrugge, ma nessuno (nemmeno la
famiglia, che a mio parere è la base su cui si costruisce ogni cosa)
potrà arrogarsi totalmente merito di un risultato o la
responsabilità di un fallimento.
Anche perché, cosa intendiamo per
fallimento? Il fatto che i nostri piani, le minuziose
progettazioni, programmazioni, equipe, tutti gli incontri coi
genitori e i docenti, con gli educatori e i riabilitatori, non
portino al lieto fine che ci eravamo raccontati, l'amara
constatazione di avere sbagliato le previsioni e di dover scrivere
sulla scheda di relazione finale “obiettivo non raggiunto”.
Se sono i disabili a rifiutare tanto
dispendio di energie si rimane interdetti, non ci si spiega come mai
non siano disposti ad accettare il nostro aiuto, visto che tutto è
fatto per il loro bene. Su, dai, pensiamo alla nostra esperienza:
abbiamo sempre mangiato le verdure quando ce lo diceva la mamma?
Abbiamo evitato di metterci col fidanzatino che era inviso a mamma e
papà o studiato diligentemente per prendere tutti 10 al liceo?
Abbiamo tutti fatto le scelte migliori per noi stessi? Io, lo
ammetto, no e sono ancora qui a pensare, magari dopo decenni, a
quelle scelte.
Perché per i disabili dovrebbe essere
diverso? Perché non dovrebbero essere liberi di sbagliare e imparare
dai propri errori? Perché ogni loro passo deve essere programmato da
altri, gestito, e attutito? Anche oggi, anche nei casi meno gravi,
moltissimi adolescenti disabili vengono indirizzati verso scuole che
non scelgono, percorsi di studio che altri decidono per loro, fanno
esperienze guidate della vita, che non prevedono insuccessi e
sconfitte. Ma neanche grandi lezioni. La libertà di sbagliare, la
stessa che ci dovremmo concedere noi, tutti i ragazzi se la prendono,
quando possono, e affermano così la loro identità: non sono te, non
sono voi, sono IO.
Per quanto mi possa dispiacere la scelta del mio
studente neo diplomato che sceglie di non proseguire gli studi ma di
aggregarsi al gruppo religioso di cui sopra e accontentarsi di fare
l'uomo delle pulizie piuttosto che il tecnico di computer come
avevamo progettato (era stata una sua idea, tra l'altro), non è un
mio problema, non devo essere io a decidere, ma lui. Sbaglia? Può
darsi, ma non è la mia opinione che conta, qui. Un adolescente
normodotato potrebbe fare le stesse cose e non creerebbe tanta ansia
alle persone che lo circondano. Eppure integrazione e normalità sono
fatte anche di cose che rendono il disabile meno perfetto, meno
ubbidiente a nostra immagine e somiglianza, ma più umano. Quello che
possiamo fare noi é consigliare, rafforzare, aiutare quando ci viene
chiesto, limitare i danni, ma l'errore è un sacrosanto diritto di
tutti. E questo viene anche a nostro vantaggio come operatori:
cambiando prospettiva e rinunciando a essere esseri miracolosi e
infallibili, saremo anche sollevati dalla mostruosa responsabilità
che ci siamo accollati e la potremo restituire ai ragazzi, perché
imparino a prendere decisioni con la loro testa (i genitori invece
portano comunque il peso di ogni avvenimento che tocca i loro figli).
Non sto dicendo di lasciare i ragazzi con disabilità a loro stessi e obbligarli a pensare da soli a tutto, ma a rispettare
le loro scelte, anche quelle che ci sembrano sbagliate. Dobbiamo
esserci quando serve a loro, non quando serve a noi. Non dargli
fiducia equivale a considerarli stupidi e incapaci, e non lo sono.
Hanno risorse che neanche possiamo sognare, che intervengono proprio
quando la situazione sembra disperata. Ricordo una ragazza che portai
alla maturità, la famiglia che non
aveva accettato la sua disabilità e zittiva i propri sensi di colpa
con grande dispendio di denaro, senza ascoltare le sue vere esigenze.
Era impaurita, capricciosa, viziata. Oltre il liceo, senza una scusa
per uscire di casa, vedevo un futuro fosco attenderla. Invece,
proprio dopo la maturità, ha cominciato a vivere, ha tirato fuori
energie insospettate e da quello che so sta finalmente acquisendo una propria autonomia rispetto alla famiglia. I ragazzi, se lasciati liberi, ce la
fanno. E se cadono, come tutti, si rialzano. Lasciamoli cadere,
lasciamoli rialzare.
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