Le guerre recenti non lasciano segni
tangibili, non su di noi che le osserviamo dallo schermo televisivo e
se non abbiamo un parente direttamente coinvolto come militare in
missione non ne veniamo toccati. I film ad argomento bellico seguono
quest'evoluzione, ribaltando completamente la prospettiva rispetto al
passato: non più celebrazione delle vittorie e dello spirito
patriottico, ma condanna della guerra e dei metodi con cui viene
condotta (come se ci fossero metodi migliori, più o meno etici). I
risultati però non sono in grado di eguagliare per popolarità
nessuna delle grandi pellicole del passato (con l'eccezione di "Apocalypse Now" e "Full Metal Jacket") e anche quando vincono
molti Oscar (come ad esempio “The hurt locker”) mi sembra rimangano un
oggetto un po' distante, non in grado di toccare corde emotive
profonde in occidente. Ecco allora registi come Clint Eastwood con “Lettere da
Iwo Jima” o Spielberg con “Salvate il soldato Ryan” rivolgersi
alla Seconda Guerra Mondiale, che rimane nella memoria collettiva l’evento più drammatico, in grado di suscitare ancora
grande emozione. Il messaggio può essere lo stesso di “Jarhead”
o “Full metal jacket”, ma è indubbio che faranno maggiore presa
su un pubblico più vasto.
“Dunkirk” con tutto questo non
c'entra molto, non è un film patriottico, non è un film sull'orrore della guerra, probabilmente non è nemmeno un film di
guerra, anche se la vicenda, che vide nel 1940 centinaia di migliaia
di soldati inglesi e francesi circondati dai tedeschi, bloccati sulla
spiaggia in attesa di essere portati in salvo in Inghilterra,
veramente vicinissima, rappresenta uno degli episodi più radicati
nella memoria dei britannici, anche se si trattò nella sostanza
militare di una tremenda sconfitta.
L’evento storico rappresenta la
struttura su cui Christopher Nolan crea una narrazione quasi
astratta che sconfina nel sogno,
nonostante o forse grazie al realismo esasperato, essenziale, povero
di dialoghi e di visioni eroiche. L’azione è costruita su tre
punti di vista e tre piani temporali di durata diversa: quello a
terra di un soldato inglese che cerca di lasciare Dunkirk in ogni
maniera e si aggrega man mano ad altri (una settimana), quello in
mare dell’equipaggio di un piccolo yatch che parte dalle coste
inglesi per andare a recuperare i soldati (un giorno) e quello in
aria di tre piloti della RAF (un’ora); la loro diversa estensione
crea un intreccio tra presente e passato prossimo, contraendo e
dilatando il tempo dell’azione e disorientando lo spettatore.
Questo impianto è governato da un ritmo preciso sottolineato dalla
colonna sonora industriale, sempre presente in sottofondo come il
rombo di un motore, un battito che diventa allarme con l'arrivo dei
caccia nemici e torna battito, continuamente.
La spiaggia di Dunkirk è un luogo
surreale e sospeso tra il mare (simbolo dell'ignoto) e il nemico,
invaso dall’acqua e dalla morte, aperto e claustrofobico, in cui i
piani spaziali si ribaltano togliendo letteralmente la terra da sotto
i piedi. Sopra il mare e la spiaggia i tre piloti di Spitfire
rappresentano qualcosa di celeste, impalpabile, quasi psichedelico e
divino. Il loro volo è entusiasmante, le riprese sono eccezionali
come forse prima solo in “La battaglia d’Inghilterra”
ma col
procedere della battaglia la loro missione assume sempre più una
sfumatura onirica, fino a quando il caccia di Farrier (pilota che
resta senza volto fino alla scena finale) arriva a Dunkirk col
serbatoio ormai vuoto e continua a volare, abbatte l’ultimo aereo
nemico e prosegue, sorvolando silenzioso l’infinita distesa di
sabbia, allontanandosi dalle colonne di soldati in attesa, come se
potesse veramente volare per sempre. Solo lui, una volta atterrato e
fatto prigioniero, farà un incontro concreto col nemico, che rimane
sempre invisibile ma di cui si avverte la presenza, mai chiamato per
nome per tutto il film.
L’equipaggio della Moonstone ha il
ruolo di mantenere il legame con la concretezza degli accadimenti
storici; furono i civili ad avere la parte più rilevante nel portare
in salvo gran parte dei soldati inglesi, e dalle labbra del
proprietario della barca che escono alcune delle frasi più
patriottiche, parole che oggi suonano inutilmente retoriche e che
tuttavia rappresentano il pensiero e l’idea cui gli inglesi si
aggrappavano per resistere. Qui si consuma fisicamente la frattura
fra questo patriottismo e il terrore, lo shock di chi ha vissuto la
battaglia. D’altronde, lo stridere tra le dichiarazioni di
Churchill lette dal soldato Tommy e la realtà da lui vissuta sono
evidenti nel finale, in cui emergono questioni terribili e
probabilmente poco indagate, come quella del senso di colpa dei
giovani reduci da quella spaventosa sconfitta e l’astio
dell’esercito nei confronti dell’aviazione.
La meraviglia di "Dunkirk" sta nel
raccontare un evento storico con un realismo totale, privo di
decorazioni e della retorica che contraddistingueva non solo le
pellicole americane degli anni 50/60 ma anche quelle successive, e
contemporaneamente spingersi oltre, in una dimensione
rarefatta, simbolica e metafisica in
cui ciò che vediamo, la spiaggia, i soldati in fila, il mare, le
navi e gli aerei sono trasfigurati, diventano una visione, un miraggio.
Lo spettatore è totalmente coinvolto e
partecipe, quando una nave di soccorso viene affondata noi siamo lì
dentro, e quando gli aerei tedeschi sparano siamo con la faccia nella
sabbia, tanto che nel momento in cui il comandante della marina
Bolton (Kenneth Branagh) avvista la flotta di barche civili salgono
agli occhi lacrime di commozione.
In controtendenza con la cinematografia
contemporanea in cui la narrazione fa perno su
un unico protagonista, Nolan crea un
coro dolente in cui riconosciamo alcuni personaggi particolari, ma di
cui resta una memoria collettiva.
Segnalo una chicca da cinefili, nella
versione originale è presente un cameo di Michael Caine
che dà ordini via radio ai piloti
degli Spitfire. Purtroppo a causa del doppiaggio non si
può apprezzare.
Non vi consiglio di aspettare che "Dunkirk" sia trasmesso in televisione, è un film da vedere
assolutamente al cinema, nelle condizioni migliori.
Nota a margine: devo ringraziare Christopher
Nolan per un'altra cosa, essere riuscito a far venire mio padre al
cinema con me dopo decenni (l'ultima volta fu nell'83 per “La zona
morta”). E il film gli è pure piaciuto. Grazie, Chris!
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