martedì 26 settembre 2017

Famiglie Cannibali- "Hungry Hearts" di Saverio Costanzo

Sono colpita da come si sia evoluto il concetto di genitorialità, soprattutto a partire dalla mia generazione, forse la prima di figli a cui è stato concesso tutto in termini materiali. Fino ad allora la prole era quasi l'obbligato coronamento di un matrimonio, e chi non ne aveva era guardato con compassione, come qualcuno cui la Natura, non la volontà personale che si dava per scontata, avesse negato l'occasione di una vita piena e completa. Oggi i bambini sono pianificati, previsti, cercati; arrivano talvolta per caso, ma sempre meno. Così, è cambiato anche il loro ruolo e la loro funzione interna alla famiglia e l'attenzione di cui sono oggetto da parte dei genitori, generando conseguenze spesso negative nel momento in cui devono entrare nel mondo, seguire regole comuni e rispettare l'altro. Mettere in dubbio la santità della genitorialità è quasi una bestemmia in Italia, ma qualche sera fa “Hungr y Hearts” mi ha dato la certezza che non sono l’unica ad avere di questi pensieri.

La famiglia è cambiata, da elemento di un tessuto sociale si è progressivamente trasformata in un organismo mono cellulare unico e irripetibile, ogni nucleo a sé, separato dagli altri, simili solo per costituzione (esseri di diversa provenienza che convivono e -non sempre, ma accade- si riproducono). Questo isolamento ha trasformato anche i figli in esseri unici, diversi da ogni altro e tanto più preziosi in quanto estensione e riflesso diretto dei genitori, in grado di somigliargli appagando il loro narcisismo, di amarli e di essere amati soddisfacendo un bisogno emotivo. Il sentimento di separazione dal resto del mondo può generare come conseguenza la convinzione che il nostro modo di vivere sia migliore e più puro degli altri e che per preservare i figli sia necessario agire e crescerli diversamente dagli altri.
“Hungry Hearts” è anche, ma non solo, la rappresentazione di questo tentativo di mantenersi al di fuori del gruppo, della massa, che può contaminare la prole e di conseguenza la famiglia. La madre ossessionata dalla purezza, che rifiuta per il suo piccolo il cibo che tutti gli altri bambini mangiano causandone un rallentamento nella crescita, che non lo espone al sole e nemmeno lo porta fuori casa per sette mesi è tanto più agghiacciante quanto sincera e ostinata nella sua convinzione -secondo un altro cliché della maternità italiana- di conoscere il proprio figlio meglio di chiunque altro e di sapere, in virtù di questo, cosa sia meglio per lui, di poterne disporre come di un bene che è suo, solo suo. Non è casuale credo, se non ho sentito chiamare il bambino per nome durante tutto il film: conteso tra il padre e la madre e strappato dalle braccia dell'una e dell'altro in continuazione, egli perde la sua identità e diventa un oggetto, è una proprietà al cui possesso nessuno vuole rinunciare, calpestando il partner e il rapporto da cui quel figlio è nato. In una reazione imprevista, ciè che doveva unire distrugge. Serrati nel conflitto, i protagonisti vivono un incubo claustrofobico (la sequenza nel loro appartamento ripresa dall'alto con lenti deformanti è angosciante, le voci che arrivano lontane, ovattate e sembrano provenire dal nulla) da cui non sembra esserci via d'uscita e la cui posta (non possiamo dimenticarlo per un solo istante) non è solo la vita del bambino, ma tutto il suo essere: ciò che potrà essere e diventare e desiderare sarà inevitabilmente fagocitato da questa guerra interna alla famiglia.
Saverio Costanzo, che già mi aveva sorpreso con “La solitudine dei numeri primi” mi convince definitivamente che si può uscire dagli stucchevoli e triti schemi del cinema italiano scoprendo i conflitti, i sentimenti e le angosce di cui si fa fatica ad ammettere l'esistenza, almeno da noi. Alba Rorhwacher è bravissima, riesce ad attirare l'antipatia dello spettatore come una calamita, nonostante la sua convinzione alimenti il dubbio che potrebbe pure avere ragione, la sceneggiatura è quella di un thriller in cui la tensione viene alimentata in maniera lenta e costante, mentre la scelta di limitare i personaggi e usare ambientazioni d'interni e inquadrature strette per la maggior parte del tempo dà perfettamente il senso di essere in trappola, isolati e soli dei due giovani. Speriamo solo che Saverio Costanzo non faccia la fine di Paolo Sorrentino.


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