lunedì 4 febbraio 2013

Tu vò fa l'amerigano

A volte l'industria cinematografica americana chiama registi europei a dirigere qualche filmone con grandi protagonisti; altre volte è il regista europeo ad avere un sogno da realizzare negli Stati Uniti, lavorare insieme a qualche attore famoso o a qualche amico regista. Paolo Sorrentino, il mio regista italiano vivente preferito, aveva un sogno. Così è andato via dall'Italia: prima tappa Dublino, dove vive Cheyenne, un ex rockstar che ha interrotto la carriera a causa del suicidio vent'anni prima di due giovanissimi fans. Cheyenne vive imbalsamato nella pettinatura e nel trucco di scena (un'evidente citazione di Robert Smith dei Cure), trascina un corpo reso fragile da droghe e alcol, e parla come Forrest Gump. Attorno a lui si muovono personaggi come Jane, la moglie pompiere  (Frances McDormand), salutista e atletica, Mary, una ragazzina con cui lui legge i giornali nella caffetteria di un centro commerciale, Jeffrey, un amico che parla unicamente delle sue conquiste sessuali. La sua vita è statica e dominata dal senso di colpa.
La svolta arriva con la morte del padre (un reduce dei campi di concentramento), che lo costringe a partire per gli Stati Uniti. Non si vedevano da trent'anni, non si capivano e forse non si amavano. Il padre era aveva passato tutta la vita a cercare l'ufficiale nazista che lo aveva umiliato nei campi, aveva fatto indagini e annotato ogni indizio utile a trovarlo in un quaderno. Cheyenne decide di compiere l'impresa che non è riuscita al genitore, e parte, guidato dagli appunti del genitore. 
Le immagini sono splendide, alcune scene si sposano in modo perfetto con la musica, Sean Penn è bravissimo. Eppure non sono convinta. Prima di tutto perchè il regista sembra, nonostante la sua intelligenza ed esperienza, incapace di evitare alcune banalità viste e riviste in molti film: ad esempio la scena nel supermercato ricalca per atmosfera decine di altre simili, con la musica da ascensore, l'ambiente inquietante e neutro, le centinaia di scatole di prodotti tutte uguali; e poi, l'incontro con la cameriera di fast food che cresce da sola un figlio e invita Cheyenne a cena, finendoci quasi a letto (sì, almeno questo ce lo ha risparmiato!). E anche se la scena del concerto di David Byrne è girata benissimo, un videoclip all'interno del film, tutta la sequenza non ha un vero motivo nella narrazione; il dialogo tra Byrne e Cheyenne che dovrebbe essere rivelatore in realtà non rivela nulla, dà solo l'occasione al musicista di comparire in un cameo.

Ma non è tutto. La scelta di un protagonista ebreo americano che vive in Irlanda sembra aver generato un personaggio simpatico ma non abbastanza "sentito", perfino un pò statico. Non voglio dire che Cheyenne avrebbe dovuto essere di Posillipo o Napoli, ma se lo paragoniamo a Titta di Gerolamo ("Le conseguenze dell'amore") o ad Antonio Pisapia ("L'uomo in più") percepiamo una mancanza, come se il personaggio non fosse del tutto a fuoco. La cultura di provenienza è fondamentale, qualcosa che anche a volerlo è praticamente impossibile scollarsi di dosso. Perfino i fratelli Cohen anche quando non sembrano attingere ai temi classici della loro comunità mantengono quello sguardo comico e tragico tipico della cultura ebraica.
Se facciamo il paragone con "Simon Koniansky"un brillantissimo film di Micha Wald che muove pressapoco dagli stessi presupposti (un uomo in conflitto col padre ex deportato, che alla morte di quest'ultimo intraprende un viaggio per esaudire il suo ultimo desiderio) è ancora più evidente l'incompiutezza del lavoro di Sorrentino: mentre Wald fa scoprire e comprendere al giovane Simon il padre attraverso un viaggio tragicomico in cui il ricordo delle deportazioni è vivo e straziante anche se sempre in bilico con un'amara risata, Cheyenne insegue un Colonnello Kurtz decrepito e cieco la cui massima colpa agli occhi del padre di Cheyenne era quella di averlo spaventato al tal punto che l'uomo s'era fatto la pipì addosso. Non è divertente. E Cheyenne non cambia, non cresce, lascia l'America identico a come era al suo arrivo.
Paolo Sorrentino sembra essersi lasciato assorbire dal lato estetico (in qualche modo giovanilistico) della missione, dimenticando o sottovalutando le radici culturali profonde del suo protagonista, che infatti è sospeso, sia nella sua scelta di rimanere adolescente che in quella di diventare adulto in un limbo non compiuto.




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