venerdì 2 aprile 2010

Disabile io, disabile tu

Non è la prima volta che parlo del mio lavoro, di solito lo faccio quando proprio non posso farne a meno. Vi premetto che la farò lunga, perciò sentitevi liberi di smettere la lettura quando volete.

La mia occupazione consiste nel fare da tramite linguistico e didattico ad una persona sorda che frequenta la scuola superiore.
Questa persona è partita da uno stato di notevole svantaggio rispetto alla sua classe ma grazie all'impegno e al duro lavoro ha fatto grandi progressi, tanto che si spera si possa diplomare come la maggior parte dei suoi compagni.

Osservando insegnanti ed operatori vari, ho notato però un'incapacità quasi transgenica di valutare la reale portata dell'handicap e di trattare il disabile come un pari agli altri ragazzi.
Qualche dubbio mi era venuto già lo scorso anno, quando un paio d'insegnanti mi avevano segnalato quasi inorridite che il mio ragazzo in mia assenza era vivace quanto gli altri e faceva comunella con i più scapestrati (ed emarginati). Inoltre, scherzava con loro facendo disegnini osceni. Ohibò, si aspettavano che fosse una specie angelo asessuato solo perchè è sordo?
E' un atteggiamento abbastanza comune -purtroppo- quello di negare la crescita dei ragazzi disabili, la tendenza a considerarli sempre bambini. Ma dovrebbe essere affare dei genitori preoccupati per il loro futuro (e questi dovrebbero essere aiutati a superare la cosa), non degli insegnanti che hanno o dovrebbero avere molta esperienza, soprattutto arrivati ad una certa età.

Non si sa perchè il disabile goda -si fa per dire- di questa aura di santità ed innocenza che oltre ad essere irrealistica, spesso lo relega in un mondo in cui non è libero di essere totalmente sè stesso, di sbagliare, di avere sentimenti negativi. Non si vuole capirlo, troppo faticoso, si pretende di farlo assomigliare ad un'immagine stereotipata, che non crei problemi a genitori, professori etc.
Posso solo immaginare quale dolore possa essere per un ragazzino veder crescere i propri compagni mentre lui è tenuto sotto una campana di vetro, limitato nelle azioni e nei desideri.

Ma c'è di più. Quando si tratta di valutare le capacità intellettuali di un disabile la gente pencola tra due opposti schizofrenici senza soluzione di continuità: il soggetto o è un poveretto incapace d'intendere e di volere, buono ma scemo, o un genio intrappolato in un corpo mal funzionante.
A volte, è vero, veniamo sorpresi dai meravigliosi progressi che fanno le persone che ci sono affidate, ma questo non vuol dire che di punto in bianco abbiano superato l'handicap, perchè quello c'è e a volte non è uno solo.
Perfino un prodigio come Hellen Keller, ragazza sordocieca isolata dal suo handicap per anni, ebbe bisogno non solo di un'istitutrice che lavorasse continuamente con lei, ma anche di molto tempo di lavoro intensivo. Purtroppo non molti ragazzi disabili dispongono di tale disponibilità e volontà da parte di educatori e riabilitatori.

Insomma, tutto va messo in prospettiva, tenendo presente i tempi e le modalità di apprendimento. E questo sembra che certa gente proprio non ce la faccia a farlo. Il risultato -scoraggiante- è che agli alunni disabili o non viene chiesto nulla o viene chiesto troppo. In entrambe i casi si crea infelicità e frustrazione.
Un disabile come ogni altro studente va compreso come parte di un gruppo e nella sua singolarità, nè emarginato nè idolatrato, ma trattato come tutti gli altri, per quello che è, con un obiettivo di normalità sia sociale che didattica (è un principio ormai assodato quello dei progressi e non degli obiettivi), accettandone i lati positivi e quelli negativi, la simpatia e l'antipatia (ci sono disabili notevolmente antipatici ed indisponenti).
Nessuno dice che sia un lavoro facile, però qui c'è gente che nemmeno ci prova pur avendo studiato ed essendo pagata per farlo.
A volte mi chiedo chi siano i veri disabili, quelli certificati o noi che dovremmo prenderci cura di loro e non ne siamo capaci.

2 commenti:

  1. La risposta gia' l'hai data: questa gente impregnata di buonismo e carita' pelosa, relega i "disabili" in un angolo della propria morale, un angolo dove loro sono i "poverini".

    Una volta Paolo Villaggio racconto' che la figura del comico e' simpatica, da compatire o sostenere, ma la gente la vede come assessuata.
    Lo stesso in qualche modo accade coi disabili, sono sempre dei "poveri bambini" da proteggere (anche se in realta' hanno solo bisogno di cavarsela da soli). Da trattare come bambini, percio' guai se dimostrano di voler essere come gli altri, di avere desideri e pulsioni umane come gli altri.
    E' piu' comodo metterli su uno scaffale, lo scaffale dei "poverini".

    Questo non li aiuta certo, fa solo sentire al sicuro gli insegnanti di cui parli, che cosi non devono far fatica a collocare i disabili in visione globale della societa'.

    RispondiElimina
  2. E dire che l'integrazione è iniziata quasi 40 anni fa...

    RispondiElimina