La vostra Frittella non frequenta il cinema quanto vorrebbe, ma ogni tanto capita di andarci e per film notevoli come quelli che seguono...
Hang me, oh Hang me! A proposito di Davis di Joel e Ethan Coen
Uscendo dal cinema dopo aver visto “A
proposito di Davis” per la prima volta, la mia amica Tiziana è
perplessa. Bel film, certo, fatto bene...ma...? A dire, ne avevamo
proprio bisogno? A cosa volevano arrivare i Coen Bros raccontando la
storia surreale e sfortunata di Llewin Davis, musicista folk nella
New York degli anni 60?
Io che il film lo vedevo per la seconda
volta (e se continuasse ad essere in cartellone probabilmente
tornerei a vederlo) so come si può sentire: lo svolgersi degli
avvenimenti sembra non avere picchi, e come in “A serious man” o
“Fratello dove sei?” ci sentiamo un po' defraudati della normale
struttura narrativa di un film (specialmente se americano). I
fratelli Coen vengono citati soprattutto per pellicole scoppiettanti,
violente e surreali come “Fargo”, “Il grande Lebowsky”, “Non
è un paese per vecchi”, ma hanno anche un lato estremamente
filosofico: così, “A serious man” era un'evidente citazione
delle peripezie di Giobbe, “Fratello dove sei?” dell'Odissea di
Omero, e “A proposito di Davis” sta a metà tra queste due
ispirazioni.
Siamo nel 1961, la musica folk sta
vivendo una nuova stagione in contemporanea con la rinascita della
consapevolezza civile nei giovani. Manca poco al debutto di Bob
Dylan, che già si aggira per il Village (il suo primo album omonimo
è proprio del 1961), e Llewin Davis è uno dei tanti folk singers
che suonano al Gaslight Cafè, nuovo tempio del genere. L'attacco
nella prima inquadratura di “Hang me, oh Hang me” ci presenta un
personaggio che si sente fuori posto dovunque: dalle navi cargo dove
lavorava, al Village dove sogna di sfondare (forse), è ipercritico e
perennemente insoddisfatto da ciò che gli tocca ascoltare. Le
canzoni dei suoi colleghi sono malinconiche ballate che vagheggiano
una povertà e una solitudine mai vissute, gli sguardi degli
spettatori, giovani intellettuali impegnati a sembrare più che ad
ascoltare, sono rapiti da qualunque cosa possa essere hip, ma Llewin,
che povertà e solitudine invece le conosce bene, non riesce a farsi
incantare dall'atmosfera, e all'entusiasmo degli amici per le
esibizioni risponde assentendo con una mancanza di convinzione che
nasconde a malapena il suo disappunto: “Aha”.
In effetti, a parte il gestore del
locale (lui sì, veramente cinico) che qui assume il nome di Pappi
Corsicato (?) è l'unico a non vivere su una nuvoletta rosa. Sotto la
patina dorata della leggenda tramandata e dell'entusiasmo che doveva
esserci allora nell'aria, trapela la sensazione di una posa, di una
finzione che bene o male tutti gli altri personaggi hanno accettato
di farne parte. L'amico Jim si finge musicista impegnato ma è un
giovanotto di buona famiglia che sa bene che per sfondare bisogna
scrivere canzonette, e non ha vergogna di farlo (e di inciderle!);
l'agente Mel offre il proprio cappotto allo squattrinato Llewin per
poi ritirare l'offerta appena questo accetta; Jean (compagna di Jim)
si fa mettere incinta sempre da Llewin (forse) per poi trattarlo
malissimo, come se lei non fosse stata nemmeno presente quando è
successo il fattaccio. La sorella finge che nella loro famiglia sia
andato sempre tutto bene, ma è evidente che le cose non stanno così.
Tutti in qualche modo recitano una parte, cercando di mostrare
qualcosa e di nascondere qualcos'altro. Solo Llewin e il gatto dei
Gorfein -sua coscienza, una sorta di Grillo Parlante molto più
simpatico- sono sempre sinceri, con tutti. E per questo motivo il
protagonista diventa a sua volta coscienza e spalla di una giostra di
caratteri che gli vengono incontro come massi su una strada in
discesa e che presi tutti insieme (come purtroppo capita al nostro
eroe) sono veramente allucinanti. Il culmine però è l'incontro con
Johnny Five -poeta beat- e Roland Turner, musicista jazz con la
spocchia dei musicisti Jazz. Il viaggio che insieme a loro Llewin
compie verso Chicago è una vera sofferenza, percepita quasi
fisicamente anche dallo spettatore che assiste incredulo a quanto il
protagonista deve subire, e quando chiede alla cameriera di un
autogrill quanto manca a Chicago e lei risponde “Tre ore” ci
sentiamo veramente gelare il sangue.
Nonostante il freddo, la fame, e gli
sfiancanti compagni di abitacolo va avanti, aggrappato alla sua
musica, che forse è l'unica cosa di cui sia sicuro, anche quando il
famoso produttore Bud Grossman gela le sue speranze.
Se di solito i film dei fratelli Coen
traboccano di cinico humour nero, qui possiamo permetterci solo una
risata amara e incredula. Llewin, così casinista, testardo, forse
presuntuoso ma puro, resta nel cuore, persegue la sua strada anche se
sa che ci sarebbero scappatoie, che la vita non premia i coraggiosi e
che di questo passo non arriverà da nessuna parte. Lo sa, e nessuno
si esime dal ricordarglielo, dall'acida Jean a Grossman (“Non hai
la stoffa del leader”), ma non riesce a fare a meno di seguire la
propria strada, per quanto rovinosa e deludente. E anche quando cerca
di ritornare ad una vita “regolare”, al lavoro “serio” del
marinaio per poter almeno mangiare, non può tornare indietro, ma
solo proseguire verso il suo destino.
Per chi conosce la musica di Bob Dylan
e il cinema di quel periodo il film è anche un delizioso catalogo di
ammiccamenti e citazioni che permettono di leggere la storia su
diversi piani, uno strettamente legato alle vicende di Llewin e
l'altro alla storia dell'impegno civile e del movimento sia musicale
che politico degli anni 60.
Dietro l'apparente semplicità e
linearità “A proposito di Davis” cela una ricchezza di
caratteri, di considerazioni sul destino e di paradossi, anche
temporali, invidiabile. Costruito su quanto non si dice piuttosto che
su quanto viene detto e mostrato, ha una sceneggiatura mirabile, una
musica meravigliosa, e due straordinari personaggi, Llewin Davis
(Oscar Isaac, bravo anche come cantante), e il gatto. E ti resta
dentro per tantissimo tempo, come una canzone che non riesci a
smettere di cantare alla quale scopri di esserti terribilmente
affezionato.
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Llewin Davis |
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e...Gatto...?
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L'amore ai tempi dell'Ipad:
Lei di Spike Jonze
“Essere John Malkovich” era un film bizzarro, divertente e a tratti disturbante, che ci fece conoscere il genio (oserei chiamarlo così) di Spike Jonze e la sua concezione dell'identità individuale (?) e dei rapporti amorosi. Ritroviamo questi stessi temi alla base di “LEI”, una storia d'amore (come gridato dai poster) ma non solo, interpretata da un Joaquin Phoenix carino carino e (nella versione originale) da un'incorporea (per la tristezza dei suoi fan) Scarlett Johansson.
Theodor Twombly fa lo scrittore di lettere, tiene la corrispondenza personale di chi per tempo o per scelta non riesce a scrivere ai propri cari. Passa la sua giornata a dettare a un computer frasi piene d'amore e nutrire gli affetti altrui mentre la sua vita, da quando la moglie lo ha lasciato, è praticamente priva di contatti umani, serrata tra il lavoro e la casa, un gigantesco appartamento quasi vuoto immerso in una città dove sembra non crescere un filo d'erba e tutto lo spazio è occupato da giganteschi grattacieli. Theodor passa le ore libere giocando con videogiochi olografici con i quali può addirittura dialogare e il suo vero unico compagno di vita è un aggeggio simile ad un telefono cellulare col quale comunica grazie a un auricolare: una voce elettronica lo guida, gli legge le sue mail, lo introduce in (disastrose) chat sexy, eccetera. In pratica parla da solo. La sua solitudine termina il giorno in cui decide di installare nel suo computer OS, un sistema operativo a intelligenza artificiale che -differentemente da Windows, Linux e Apple- è in grado di imparare ed evolversi. L'effetto è immediato, Theodor inizia subito a dialogare con la voce che viene dal computer (che si sceglie il nome di Samantha) e grazie all'auricolare (e ad un fantastico sistema W-Lan, Wi-Fi e tutto il W che potete immaginare) se la porta sempre appresso. Dapprima parlano del più e del meno, lei gli riordina le mails e lui le chiede aiuto per correggere alcune lettere. In pochissimo tempo però diventano amici inseparabili e da lì iniziano una verae propria relazione sentimentale.
Un rapporto tra materiale e immateriale, tra un uomo e un'entità elettronica, non fisica è un'idea vertiginosa e di per sé molto poco cinematografica che Spike Jonze affronta in ogni sua sfumatura, anche la più difficile e paradossale. Non si tira indietro neanche di fronte alla resa di una scena d'amore tra un uomo in carne ed ossa e una voce, pur per la sottoscritta poco convincente, ma certamente coraggiosa. Tutti i dubbi, le incertezze, le felicità di questa storia d'amore vengono raccontati e -come nella vita di tutti noi- i rapporti di forza cambiano continuamente e la fine è sempre qualcosa di ignoto e sorprendente.
L'idea è intrigante, di quelle che covano nell'inconscio di tutti e che aspettano solo che una sensibilità superiore e coraggiosa le peschi per noi dal profondo. Il mondo in cui si muove Theodor, pulito, caldo, morbido, in cui non esistono guerre né povertà ma solo solitudine è lo specchio inquietante del presente tecnologico, in cui le persone sono immerse in un perenne soliloquio con telefoni e computer e i gradi di separazione tra esseri umani si moltiplicano esponenzialmente; la scelta dell'ambiente, una città di edifici altissimi lucidi e immobili, sempre più opprimente e insopportabile man mano che la storia procede è illuminata dalla luce di un sole amico e dai colori delle camicie di Theodor; la splendida, veramente splendida fotografia riesce a creare un'atmosfera sospesa, un mondo come uno spot della Apple ma più sognante. Sotto certi punti di vista “Lei” è un capolavoro.
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Joaquin Phoenix sogna...e noi sogniamo lui! |
Purtroppo però questo film colleziona una serie di difetti quasi imperdonabili. Il più grave, soprattutto se consideriamo che ha vinto alcuni premi come miglior sceneggiatura originale, è proprio nella scrittura: troppa, ridondante, stucchevole. I personaggi parlano continuamente, in pratica non esistono spazi di silenzio. I dialoghi tra Samantha e Theodor sono dolciastri, complimentosi e affettati, ricordano quelli di certi spot di biscotti e merendine, e la mancanza di sostanza fisica di Samantha è sostituita da una valanga di inutili spiegazioni e parole. Credo che il termine “Dolce” sia il più ricorrente, come sei dolce, che dolce, roba da diabete fulminante. Per non parlare delle lettere che scrive Theodor, altra botta glicemica che rischia di stendere. Le emozioni sono telefonate, l'ellissi e il non detto defungono, c'è una sovrabbondanza di descrizioni di sentimenti che li rende didascalici e artificiosi, a cui corrisponde anche un'esagerazione di sequenze che mostrano “ioeilmioamorequantocidivertiamoinsieme” (del tipo musica di sottofondo e vari spezzoni su come Theo e Sam passano il tempo) che hanno il sapore delle bibite gasate che promettono un mondo migliore. Volendo difendere a tutti i costi Jonze si potrebbe dire che in linea con l'ambientazione sceglie, oltre ad un'immagine da spot anche un linguaggio da spot. E' innegabile però che questo stile appesantisca mostruosamente la narrazione. Sembra che il regista abbia abbandonato il suo bizzarro umorismo o gli abbia dato una forma troppo complessa per essere riconosciuta con relativa facilità.
Joaquin Phoenix oltre che carino carino è anche bravo bravo, ma non abbastanza per reggere il peso attoriale di un copione del genere, in cui per il 90% del tempo parla con una fidanzata invisibile. E' sicuramente anche colpa dei dialoghi, ma -anche se non è carino carino- al suo posto io ci avrei visto meglio Bill Murray, che s'era già caricato sulle spalle “Lost in Translation” portandolo ad un ottimo livello. Chissà, con un regista come Jonze, cosa sarebbe riuscito a fare.
Lei, proprio LEI, Samantha, nella versione italiana è insopportabile. Micaela Ramazzotti ha uno spiccato accento romano, ma se fosse solo quello la potremmo pure perdonare. Il problema è che non convince per niente. Non trasmette nessuna emozione sincera (che sarebbe di regola il compito di un attore) impegnata com'è a cercare di imitare la voce leggermente roca di Scarlett Johansson, quella che conosciamo dagli spot di “Dolcie e Gabana” (e che di per sé non mi ha mai particolarmente emozionata) e a pronunciare “Theodor” all'americana. Tutto quello che vorremmo è lasciarci trascinare e sommergere dalla bellezza delle immagini, ma siamo continuamente infastiditi dal cicaleccio della Ramazzotti, al punto che in certi momenti vorremmo scappare dalla sala. Qui non sarei in grado di fare un nome per una sostituta, ma sono certa che con la voce giusta il film avrebbe funzionato meglio.

Molto bene e molto male insomma. Non so dirvi quanto mi dispiace, perchè -ripeto- questo film poteva davvero essere un capolavoro. Vale comunque la pena di andarlo a vedere.
“Lei” è adesso e sempre, è la solitudine universale e profonda dell'uomo, un essere molto più limitato di quello che crede, che non dipende dalle nostre differenze “di costruzione”, bensì dalla creazione stessa che ci ha condannati.